A prima vista, il suo caso sembra abbastanza chiaro e classificabile: Francesco Giombarresi inventa macchine complicatissime, le disegna, le costruisce; lavora a un trattato di medicina; affolla di segni e di colori ogni pezzo di carta che si trova a portata della sua mano; crea un lessico adeguato alle cose che inventa, ai segni e ai colori di cui investe ogni carta; smodatamente ama farsi fotografare accanto alle sue macchine e alle sue pitture; dice sacrificata e tradita la sua vita, la sua umanità, il suo genio.
Poi, man mano che si entra nel labirinto delle sue invenzioni, dei suoi scritti, dei suoi piccoli e innumerevoli dipinti, il caso appare sempre più oscuro e sempre più sfugge alla prima classificazione. "L'arte mia sia stata un'opera di Dio, creduto per mia stessa Natura, la quale io oggi attraverso studi profondi, artistici, ò già dovuto tanto approfondire le proprie miei idei veri e dotati nel senso della mia stessa Natura la quale dal giorno della Nascita mia ad oggi, ò dovuto soffrire abbastanza il mio fisico, non solo per il fatto artistico, letterario, scientifico, ma per la gravità della forma delle miserie, delle conseguenze inaspettate, delle disavventure, dell'offese, dei soprusi, dei disordini familiari, dei processi inaspettati, alla Giustizia, quindi tutto un gruppo di cose che si incontrano a contradire la vita dell'uomo... Ho dovuto fini ad oggi dipingere più di 2000 opere, che molte di queste opere con tanto di rabbia sono andate a finire alla Catastrofe, e al fuoco, per sistemi di rabbia e di contradizione nella loro vita... Ma tutto passa e resta e resta sull'esempio nella vita delle Scritture...".
È una dichiarazione che sembra disarticolata e indecifrabile; e non è, per chi conosce Giombarresi e la storia della sua vita. Ma anche per chi non lo conosce e non sa della sua vita "sacrificata, stancata, disavventurata, bastonata", restano suggestivamente sospesi e baluginanti, come poesia tanto per intenderci, quel "Dio creduto per mia stessa Natura"; "le cose che si incontrano a contradire la vita dell'uomo"; l'opere finite "alla Catastrofe e al fuoco per sistemi di rabbia e di contradizione nella loro vita"; la vita che resta esemplare nelle Scritture al disopra quella che contradice l'uomo e la stessa.
La scrittura, le scritture, parole che frequentemente cadono nel discorso di Giombarresi, e la seconda sempre con un che di religioso e solenne. La scrittura come strumento, le scritture come risultato. La sua pittura altro non è che una scrittura, la più autentica e coerente che sia riuscito a inventare contro i sistemi della rabbia e della contradizione che da ogni parte lo assediano: e ne risultano le scritture, quelle cose vere e durevoli che sono gli innumerevoli piccoli dipinti a tempera in cui racconta il mondo, la sua vita, la vita della gente che gli sta intorno stupida e feroce, grottesca, stravolta e talvolta in un triste e blasfemo carnevale. Di fronte alle maschere e figure umane che Giombarresi dipinge, è facile pensare a Ensor; e particolarmente a quella famosa acquaforte dell'entrata di Gesù a Bruxelles nel martedì grasso del 1898. E che Giombarresi si trovi in mezzo al carnevale dell'antica contea di Modica che il suo conterraneo Serafino Amabile Guastella ha stupendamente descritto in un libro pochissimo noto: atroce carnevale degli istinti, dei rancori, violento e famelico, segnato dalla miseria e dalla morte. Che ci si trovi in mezzo traumaticamente, da uomo sereno, puro nel cuore e nella mente, candidamente compreso della propria dignità e della dignità di ogni cosa vivente, che d'improvviso vede tutto stravolgersi nella frode e nella violenza.
A Vittoria, in provincia di Ragusa, Giombarresi è nato nel 1930. Ha passato fin dall'infanzia indicibili stenti, lavorando duramente e di tanto in tanto tentando fughe disperate che finivano in più disperati ritorni. Si sposò giovanissimo. Si trasferì a Comiso. Ma il matrimonio e la nascita dei figli accrebbero i suoi disagi e le sue inquietudini. Non aveva salute e forze adatte al duro lavoro della campagna; e poi gli era venuta una bruciante passione per lo studio, la conoscenza, la pittura. Di scuole, aveva fatto soltanto le prime due classi alle elementari: ma così assiduamente si esercitava a scrivere e a leggere in solitudine e furtivamente, facendo incetta di parole e inventando un loro significato, e cercando parole per i significati che le cose gli rivelavano, che oggi è in grado di leggere nei testi quel che i testi non dicono e di scriverne - memorie, fantasie, scienze - di assolutamente impenetrabili: tantoché avendo ora trovato comunicazione con gente che non lo deride e lo aiuta, lavora ad un lessico che permetta una traduzione dei suoi testi, e specialmente di quel trattato di medicina che a beneficio dell'umanità va scrivendo.
Per scriverlo, pare esperimenti su di sé gli effetti di certe bacche, di certe erbe, di certe miscele: e serviranno a guarire mali che sono ad oggi ritenuti incurabili. Dirgli che il suo trattato di medicina, le sue esperienze, le macchine che inventa e le sostanze che distille, la sete di conoscenza e la sua ansietà per le sofferenze umane, sono incluse nella sua pittura, che nella pittura ha tutto tradotto, sperimentato e risolto, non serve. La mania coesiste con la poesia. Indifferentemente, Giombarresi può passare una notte a delirare di scienza o a dipingere con meravigliosa serenità e sicurezza. Perché è veramente pittore: e come sia arrivato ad avere una scienza così precisa ed armoniosa della pittura, un così indefettibile equilibrio è un mistero.
Ha cominciato a dipingere nel 1954. Ma le cose che mostra sono degli ultimi anni; le altre sono veramente finite nel fuoco, veramente sono state disperse al vento. Racconta di averne buttate dal finestrino del treno, tornando dalla Germania: nelle vicinanze di Napoli, e i contadini le raccoglievano. Perché è stato in Germania per due anni, a fare il boscaiolo nelle vicinanze di Stoccarda: lavoro più duro che nelle campagne di Comiso, dove c'è almeno il sole ad alleviare il dolore delle ossa.
La sua storia è insomma quella di un bracciante dell'antica Contea di Modica, quale da secoli quasi immutabilmente si ripete. Una condizione umana alquanto diversa di quella della altre zone della Sicilia: senza aggregazioni mafiose, con rarissime esplosioni di collera collettiva, con indici di criminalità molto bassi. "A lamentarci del villano della nostra antica Contea è proprio un lamentarci della buonamisura, come si dice in dialetto", scriveva alla fine del secolo scorso il barone Guastella. Un mondo contadino, dunque, rassegnato, chiuso, di silenziosa sofferenza. E se il barone non aveva da lamentarsene, Giombarresi aveva tutte le ragioni per tentare di evaderne. Solo che non riusciva, e ad ogni tentativo più amaro era il ritorno. Tutti, in paese, ritenevano che Giombarresi non avesse voglia di lavorare, persino i suoi parenti e sua moglie: in verità lavorava quanto può lavorare in Sicilia un bracciante di campagna che va a giornata, non più di cento giorni di lavoro in un anno; e quando non lavorava in campagna, si dava al lavoro ancora più precario di scaricatore alla stazione ferroviaria. Si ebbe anche una denuncia per mancata assistenza alla famiglia.
Il fatto che conducesse esperimenti "scientifici" in camice bianco, solennemente, proclamando il suo genio, faceva cadere irrisione anche sulla sua pittura: che è invece la sua scienza vera e profonda. "Mentre passavano giorni, io non mi curavo della mia stanchezza e della mia salute, ma mi incoraggiavo sempre di me stesso. Sopportavo abbastanza e studiavo con passione. Ma consideravo anche l'ignoranza che agli altri dava coraggio sempre di sfregarmi e di offendermi. Quei tempi io abitavo una casetta di un metro e sessanta di larghezza e pagavo lire mille al mese: e io e la mia famiglia, in cinque persone, dovevamo dormire in quella grotta. Ma io sopportavo anche questo, e la gente che stava bene sorrideva di me dicendomi: un giovane come te muore di fame, che vergogna; e mentre quei cretini, gente vile, volgare, tremitosa e fangosa, avevano tutta l'ansia e il fumo del denaro. Ma io inghiottivo tutto...".
"Quei tempi": cioé fino a ieri. Ora Giombarresi ha una casetta larga il doppio, e accanto si è fatta una baracchetta dove scrive, fa gli esperimenti, dipinge. Uno studio. Il fatto che Zancanaro abbia presentato una sua mostra, che Guttuso e Sassu e Cantatore lo riconoscano pittore, ha portato il Comune a riconoscerlo finalmente come bisognoso, ad includerlo nelle liste di assistenza. Di quest'ultimo riconoscimento Giombarresi sembra più contento che dell'altro. "Il diritto", dice, "il diritto delle mie creature".
Leonardo Sciascia, Francesco Giombarresi, "Il Corriere della Sera", Milano, 1 luglio 1969